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Il lemma “complicanza”: concetto inutile nel campo giuridico

Cassazione civile sez. III, 30/06/2015 n. 13328

Luglio 16, 2015 9:03 am by: Category: Giurisprudenza Leave a comment A+ / A-

Al medico convenuto in un giudizio di responsabilità non basta, per superare la presunzione posta a suo carico dall’art. 1218 c.c., dimostrare che l’evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate “complicanze”, rilevate dalla statistica sanitaria

Col lemma “complicanza”, la medicina clinica e la medicina legale designano solitamente un evento dannoso, insorto nel corso dell’iter terapeutico, che pur essendo astrattamente prevedibile, non sarebbe evitabile; ma tale concetto è inutile nel campo giuridico.

Quando, infatti, nel corso dell’esecuzione di un intervento o dopo la conclusione di esso si verifichi un peggioramento delle condizioni del paziente, delle due l’una:

  • o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”;
  • ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile: ed in tal caso esso integra gli estremi della “causa non imputabile” di cui all’art. 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”.

Al diritto non interessa se l’evento dannoso non voluto dal medico rientri o no nella classificazione clinica delle complicanze: interessa solo se quell’evento integri gli estremi della “causa non imputabile”; ma è evidente che tale accertamento va compiuto in concreto e non in astratto. La circostanza che un evento indesiderato sia qualificato dalla clinica come “complicanza” non basta a farne di per sè una “causa non imputabile” ai sensi dell’art. 1218 c.c.; così come, all’opposto, eventi non qualificabili come complicanze possono teoricamente costituire casi fortuiti che escludono la colpa del medico.

Da quanto esposto consegue, sul piano della prova, che nel giudizio di responsabilità tra paziente e medico:

  • o il medico riesce a dimostrare di avere tenuto una condotta conforme alle leges artis, ed allora egli va esente da responsabilità a nulla rilevando che il danno patito dal paziente rientri o meno nella categoria delle “complicanze”;
  • ovvero, all’opposto, il medico quella prova non riesce a fornirla:

e allora non gli gioverà la circostanza che l’evento di danno sia in astratto imprevedibile ed inevitabile, giacché quel che rileva è se era prevedibile ed evitabile nel caso concreto.

Prevedibilità ed evitabilità del caso concreto che, per quanto detto, è onere del medico dimostrare.

Inoltre, in tema di risarcimento del danno da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, la “cosa” oggetto della domanda è il pregiudizio di cui si invochi il ristoro, e gli “elementi di fatto” costitutivi della pretesa sono rappresentati dalla descrizione della perdita che l’attore lamenti di avere patito.

L’adempimento dell’onere di allegare i fatti costitutivi della pretesa è preordinato:

  • a consentire al convenuto l’esercizio del diritto di difesa;
  • a consentire al giudice di individuare il thema decidendum.

L’attore dunque non ha certamente l’onere di designare con un preciso nomen iuris il danno di cui chiede il risarcimento; nè ha l’onere di quantificarlo al centesimo: tali adempimenti non sono infatti strettamente necessari nè per delimitare il thema decidendum, nè per mettere il convenuto in condizioni di difendersi.

L’attore ha invece il dovere di indicare analiticamente e con rigore i fatti materiali che assume essere stati fonte di danno. E dunque in cosa è consistito il pregiudizio non patrimoniale; in cosa è consistito il pregiudizio patrimoniale; con quali criteri di calcolo dovrà essere computato. Questo essendo l’onere imposto dalla legge all’attore che domanda il risarcimento del danno, ne discende che una richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi”, quando non sia accompagnata dalla concreta descrizione del pregiudizio di cui si chiede il ristoro, va qualificata generica ed inutile. Generica, perchè non mette nè il giudice, nè il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro; inutile, perchè tale genericità non fa sorgere in capo al giudice il potere- dovere di provvedere.

Chi domanda in giudizio il risarcimento del danno ha infatti l’onere di descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali chiede il ristoro, senza limitarsi a formule vuote e stereotipe come la richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi”; domande di questo tipo, quando non ne sia dichiarata la nullità ex art. 164 c.p.c., non fanno sorgere in capo al giudice alcun obbligo di provvedere in merito al risarcimento dei danni che fossero descritti concretamente solo in corso di causa.

Cassazione civile  sez. III, 30/06/2015 n. 13328

 

 

 

 

 

 

 

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