di AA. VV.
Rischio Sanità n. 15 – Dicembre 2004
Tutte le attività mediche si pongono l’obiettivo di garantire il massimo beneficio con il minimo rischio, secondo la regola Ippocratica primum non nocere. Ciò non ostante, ci si trova di fronte al seguente paradosso: a fronte di un elevato livello medio di professionalità e di impegno degli operatori, da tutti riconosciuto, si registra un’alta incidenza di errori e di eventi sfavorevoli, anche ad esito letale, legati alle cure mediche. La trasfusione del sangue non fa eccezione a questa regola. Anzi, da più parti è
stata evidenziata un’ulteriore divaricazione tra l’elevatissima affidabilità della produzione di sangue ed emocomponenti ed i l basso livello di sicurezza della sua somministrazione. La differenza tende a permanere e risulta dell’ordine di migliaia di volte. Ciò che più colpisce, però, è il mancato ricorso all’uso di tecnologie oggi disponibili, le quali potrebbero essere determinanti nel ridurre questo gap (Dzik, 2003). I rischi maggiori derivano dallo scambio di campione di sangue, di paziente o di sacca, i quali possono provocare un esito letale in seguito a reazione emolitica da incompatibilità ABO. Tale problema influisce negativamente sull’indice globale di qualità e sicurezza della trasfusione ed è tale da avere indotto McClelland a definire malato il processo trasfusionale (McClelland, 1998). Soltanto negli ultimi anni si è incominciato a constatare un cambiamento di mentalità, tale da indicare un sia pur lento evolversi verso paradigmi di sicurezza più aderenti alla realtà dell’epidemiologia dell’errore (Rubertelli et al., 2002).
continua...
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